Transizione verde addio: da Exxon a Eni strategie cambiate, si torna ai combustibili fossili
La transizione verde non esiste più nei piani delle grandi compagnie petrolifere, e riscoprono i combustibili fossili, ovvero gas e petrolio.
Ormai non c’è neppure più la pudicizia di quello che viene chiamato greenwashing, la ripulitura verde, ovvero fare finta, per ragioni di immagine e marketing, di adottare politiche pro ambiente anche se poi di concreto si fa poco o nulla. Il colosso statunitense Exxon, che ha chiuso il 2022 con profitti per 59 miliardi di dollari, i più alti mai registrati da una compagnia petrolifera, liquida così la questione nei documenti inviati alla Sec (l’autorità che vigila sui mercati Usa): “È altamente improbabile che la società accetti il peggioramento degli standard di vita che richiederebbe il raggiungimento delle emissioni nette zero nel 2050″.
Ne consegue che il gruppo non ha nessuna intenzione di diminuire i suoi investimenti in gas e petrolio che sono tornati a generare profitti stratosferici. Tutte le grandi compagnie hanno chiuso il 2022 con risultati di bilancio record ed elargito generosi premi ai propri azionisti. Dividendi, riacquisto di azioni proprie, bonus, titoli in crescita. Da un paio di anni nel settore è in corso un’abbuffata di profitti che lascia l’amaro in bocca a chi ha investito in prodotti finanziari focalizzati sulla sostenibilità ambientale (do you remember Esg?) che promettevano ritorni superiori a quelli dei business meno puliti.
Le compagnie americane come Chevron, e la stessa Exxon, sono sempre state più restie delle europee a lanciarsi nella rivoluzione green.
Ciò che è interessante, e preoccupante, è che mentre prima questa timidezza rischiava di allontanare gli investitori, ora li attrae. Capita l’antifona, i concorrenti europei come Shell, British Petroleum, TotalEnergies e l’italiana Eni, hanno a loro volta messo nel cassetto i grandi piani “verdi” e ritirato fuori i vecchi progetti.
Eni, insieme a Var Enrgi (di cui la stessa Eni ha il 63%), ha da poco acquisito Neptune Energy Group, società specializzata nell’esplorazione e produzione di gas in Europa occidentale, Nord Africa, Indonesia e Australia. Un’operazione da quasi 5 miliardi di dollari. “Nel nostro modello di azienda a satelliti siamo capaci di investire nella transizione e quindi nella trasformazione del nostro business ma anche accrescendo ciò di cui abbiamo bisogno ora che è il gas, quindi dobbiamo investire bene in entrambi i fronti senza sacrificare un investimento rispetto all’altro, con profitti naturalmente, essere efficienti dal punto di vista del bilancio”, ha detto l’Ad di Eni Claudio Descalzi.
Wael Sawan, amministratore delegato di Shell, la più grande compagnia petrolifera privata al mondo, ha ammesso candidamente: “Investiremo nei modelli che funzionano, quelli con i rendimenti più alti”.
Ci abbiamo provato, o abbiamo fatto finta di farlo, ora si torna al fossile. Il gruppo si accoda alla concorrente British Petroleum che aveva già fortemente ridimensionato i suoi piani per tagliare la produzione di petrolio. Una scelta premiata in borsa, nell’ultimo anno le azioni BP sono salire del 17%, quelle di Shell della metà. Secondo la Ong Global Witness, la modifica delle linee strategiche di Shell costituisce “un’inversione di 180 gradi” in negativo. Questa svolta, denuncia l’organizzazione, significa un grave passo indietro “sul dossier della crisi energetica, in luogo di un’accelerazione degli investimenti verdi”. È la conferma della volontà di “mettere ancora una volta il profitto davanti a tutto da parte degli inquinatori, a danno della gente e della salute del pianeta”, rincara l’associazione Amici della Terra.
“Questo cambio di rotta sorprende ma fino ad un certo punto” spiega a Ilfattoquotidiano.it l’economista Carlo Scarpa che insegna all’università di Brescia. “Le compagnie hanno probabilmente l’impressione che l’aumento dei prezzi degli idrocarburi sia destinato a durare. Era iniziato già prima dell’invasione russa dell’Ucraina, ora è in parte rientrato ma le quotazioni rimangono su valori relativamente elevati”, spiega Scarpa che aggiunge: “finché i prezzi erano bassi le rinunce da fare in termini di margini di profitto per allentare i legami con le fonti fossili erano contenuti, ora non lo sono più”. Del resto, ad essere sinceri, non c’è nessuna previsione realistica che “veda” un calo del consumo di petrolio nei prossimi anni. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia i consumi di greggio, oggi intorno ai 100 milioni di barili al giorno, sono destinati a rallentare la loro crescita fino ad azzerarla ma non a diminuire. L’Aie stima che il consumo globale di petrolio salirà del 6% tra il 2022 e il 2028 per raggiungere i 105,7 milioni barili al giorno.
L’Opec si aspetta un incremento della domanda del 23% da qui al 2045, a 110 milioni di barili al giorno.
“Indipendentemente da come e quando finirà la guerra in Ucraina, la Russia ha smesso di essere un partner energetico affidabile per l’Ue, di fatto la sua offerta di gas non c’è e non ci sarà più. È vero che la crescita delle rinnovabili è stata impetuosa ma ancora non basta per colmare del tutto questo gap che si è creato”, ragiona Scarpa.
La Russia è il primo esportatore di gas al mondo. Questa immensa offerta ora è fondamentalmente a disposizione dell’Asia e della Cina in particolare. “Avere a disposizione gas a basso costo è una fortissima tentazione per Pechino, lo è da un punto di vista industriale ma lo è anche da quello geopolitico. Per la Cina, comprare il gas e il petrolio di Mosca, è anche un modo per attrarre definitivamente nella sua orbita la Russia e farne un paese suo satellite”. La Cina, grande consumatrice di carbone, il più inquinante dei fossili, ha investito molto anche nelle rinnovabili ma, soprattutto ora che attraversa una fase economica molto delicata, la tentazione di rallentare è forte. Ma è qui e in India che si giocherà la vera partita della lotta ai cambiamenti climatici.
Non molto tempo fa colossi finanziari come BlackRock e Vanguard Group hanno risposto ad alcune domande rivolte loro da parlamentari britannici incaricati di capire come il Regno Unito potrebbe ottemperare ai suoi impegni di riduzione delle emissioni di Co2. Quello che è emerso è che nessuna di queste società ha intenzione di interrompere o ridurre significativamente i finanziamenti all’industria delle fonti fossili.
Tutto ciò pone una questione fondamentale, ovvero quanto spazio debba essere concesso ai meccanismi di mercato di fronte ad una crisi climatica ormai iniziata. Molti economisti hanno rimarcato il sostanziale fallimento di sistemi come la vendita dei permessi di emissioni di Co2 o altri meccanismi che si affidano a logiche di mercato per gestire il problema dell’inquinamento.
La retromarcia delle compagnie petrolifere innescata dalla corsa al profitto suggerisce che siano necessari interventi esterni per più energici. Né sembra che la grande finanza sia davvero in grado di svolgere una funzione di allocazione degli investimenti favorevole al contrasto della crisi climatica. Del resto, come scriveva il padre del libero mercato Adam Smith (un padre che conosceva bene virtù ma anche difetti del “figlio”): “I grandi azionisti sono una categorie di persone i cui interessi non coincidono mai con quelli della collettività, che hanno anzi un interesse a ingannare e addirittura opprimere il resto della società e che coerentemente, in molte circostanze, lo hanno fatto”.